I LUPI DEL PARCO DELLA MAJELLA E LA RESISTENZA AGLI ANTIBIOTICI

Lo studio “Occurrence of Tetracycline Resistance Gene  TetA(P) in Appennine wolves (Canis lupus italicus) from different human-wildlife interfaces”, pubblicato recentemengte sul Journal of Global Antimicrobial Resistance da un team di ricercatori dell’università di Teramo e del Parco Nazionale della Majella, è uno dei pochi contributi scientifici attualmente disponibili sulla contaminazione ambientale legata all’utilizzo di antibiotici e vede insolitamente come protagonista i lupi che vivono nel Parco della Majella.

Si tratta di uno studio realizzato dal Wildlife research center del Parco Nazionale della Majella e dall’Unità di malattie Infettive della Facoltà di medicina veterinaria dell’università degli studi di Teramo coordinata da  Cistina Di Francesco nell’ambito del Progetto Demetra, finanziato dal ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, che ha indagato sulla resistenza agli antibiotici (AMR) di due branchi di lupi.

All’Ente Parco della Majella spiegano che «Lo studio, ancora in fase preliminare, ha rivelato come i lupi ci possano rilevare, frequentando ambienti differenti e diverse aree del nostro territorio, indici diversi di contaminazione ambientale. Grazie ai dati ottenuti dai radiocollari satellitari applicati a due femmine di due distinti branchi, lo studio ha dimostrato come nel branco che vive nel cuore del Parco, prevalentemente in ambiente “wild” non si siano rilevati geni dell’antibiotico resistenza, cosa che è avvenuta invece in un branco periferico, il cui territorio include numerosi centri abitati e, appena fuori parco, strutture zootecniche anche a carattere intensivo. Il lupo, dunque, all’apice della piramide alimentare, si conferma essere un ottimo indicatore dello stato di salute del nostro ambiente perché, in fondo, è un animale fortemente adattabile e “sa raccontare” l’ecosistema, anche con i suoi punti critici, spesso, ovviamente, provocati dall’uomo. Un motivo in più, per il Parco, di proseguire nella sua missione di custode del territorio, attraverso il Wildlife Research Center e con l’approccio della Conservation Medicine, quanto mai oggi portato all’attenzione della pubblica opinione, anche per le criticità ecologiche e sanitarie che sono alla base della diffusione della pandemia da COVID-19».

I ricercatori spiegano infatti  che Un precedente studio metagenomico ha sottolineato la dominanza dei geni di resistenza alla tetraciclina nei microbiomi animali, spiegata probabilmente dall’esposizione storica e attuale alla tetraciclina nell’allevamento degli animali. Infatti, la contaminazione ambientale può spiegare i risultati ottenuti nel nostro studio, considerando che negli animali fino al 75-80% delle dosi di tetraciclina viene escreto nelle urine e nelle feci e le molecole di tetraciclina sono caratterizzate da una persistenza a lungo termine nel suolo, con un’emivita di 578 giorni. Inoltre, la rilevazione del gene TetA(P) potrebbe essere correlata all’attività di predazione dei lupi sugli ungulati domestici o selvatici, come precedentemente suggerito per la popolazione di lupi iberici».

Gli scienziati italiani fanno però presente che «Durante il nostro studio un totale di 9 siti di uccisione (4/BVO e 5/MC pack) con evidenza di predazione del lupo su ungulati selvatici (6 carcasse) e piccoli ruminanti domestici (3 carcasse) sono stati identificati per entrambi i branchi, mentre il gene di resistenza alla  tetraciclina è stato rilevato solo a partire dai campioni di BVO. La densità degli animali e le caratteristiche dell’home range, piuttosto che l’attività di predazione, potrebbero aver influenzato la distribuzione dei geni nei branchi indagati. In effetti, l’home range BVO ha portato a includere villaggi, allevamenti di suini, un macello e un impianto di lavorazione della carne, suggerendo una relazione tra la distanza spaziale dalle infrastrutture umane e il rilevamento di geni TetA (P) della resistenza, a causa di una maggiore pressione antropica per il BVO rispetto al pack MC».

I ricercatori concludono: «I risultati qui esposti confermano che il contesto ecologico in cui vive la fauna selvatica può fornire potenziali informazioni sui percorsi ambientali attraverso i quali l’AMR può essere acquisita e dispersa. Le indagini molecolari, basate sulla PCR (saggio metagenomico, ndr) indipendente dalla coltura, sembrano essere un approccio alternativo utile per studiare gli ARG (geni di resistenza antimicrobica, ndr)  e il loro potenziale ruolo come contaminanti ambientali».

Tratto dadel 09 Ottobre 2020