LE BALENE SONO INGEGNERI ECOSISTEMICI MOLTO PIU’ IMPORTANTI DI QUANTO SI PENSASSE: CONCIMANO L’OCEANO

Dal 1910 al 1970, gli esseri umani hanno ucciso circa 1,5 milioni di balenottere nelle acque gelide che circondano l’Antartide. Le balene sono state cacciati per il loro grasso, i fanoni e la carne. Si potrebbe supporre che dal punto di vista del krill (Euphausia superba) – le minuscole creature simili a gamberetti delle quali si nutrono le balene – questo sia stato un vantaggio, ma il nuovo studio “Baleen whale prey consumption based on high-resolution foraging measurements”, pubblicato su Nature da un team internazionale di ricercatori guidato dal Goldbogen Lab della Stanford University rivela il contrario: «Il declino dei misticeti nell’Oceano Antartico ha portato a un declino del krill».

I ricercatori fanno notare che questo risultato paradossale e controintuitivo evidenzia quanto l’accelerato  declino dei grandi mammiferi marini abbia avuto un impatto negativo sulla salute e sulla produttività degli ecosistemi oceanici. Il principale autore dello studio, Matthew Savoca dell’Hopkins Marine Station della Stanford University, sottolinea che «Cinquant’anni dopo aver smesso di cacciare le balene, stiamo ancora imparando quale impatto abbia avuto. Il sistema non è più lo stesso. Stiamo cercando modi per utilizzare queste informazioni per ripristinare gli ecosistemi oceanici e riportare in vita le balene. E si spera che questo avrà benefici per tutto, dalla conservazione della biodiversità alla resa della pesca, allo stoccaggio del carbonio».

I ricercatori sono giunti alla loro preoccupante conclusione dopo essersi posti una domanda fondamentale: «Quanto mangiano le balene?»

Il problema è che i grandi cetacei sono intrinsecamente difficili da studiare perché non si può farlo in cattività, quindi, le stime precedenti di quanto consumano le balene erano generalmente limitate a studi fatti su balene morte su  estrapolazioni metaboliche basate su animali molto più piccoli. In questo studio, i ricercatori hanno esaminato balenottere azzurre ((Balænoptera musculus), balenottere comuni (Balaenoptera physalus), megattere (Megaptera novaeangliae) e balenottere minori (Balaenoptera acutorostrata), tutte balene che si nutrono ingurgitando una grande quantità di acqua e filtrandola attraverso i fanoni.  Per farlo hanno impiegato diversi  high-tech tagging devices  che si attaccano alle balene in genere per circa 5-20 ore, registrandone i movimenti, l’accelerazione, i suoni e, se la luce lo consente, video. I droni, gestiti dal Duke Marine Robotics and Remote Sensing Laboratory, hanno misurato la lunghezza delle singole balene taggate, il che ha aiuta i ricercatori a stimarequanta acqua ingurgitano. In collaborazione con l’Environmental Research Division della National Oceanic and Atmospheric Administration  Usa (NOAA) e l’università della California – Santa Cruz, i ricercatori hanno anche utilizzato un ecoscandaglio che utilizza onde sonore a diverse frequenze per misurare quanta prede delle balene ci sono in mare.

Un’altra autrice dello studio, Shirel Kahane-Rapport, una studentessa del laboratorio di Goldbogen, sottolinea che «Tutto questo messo insieme ci dà una visione veramente straordinaria. Da ognuna di queste cose si può imparare molto sulle balene, ma la loro combinazione porta la ricerca a un altro livello».

Infatti, l’analisi dei dati acquisiti ha rivelato che «Le balene nell’Oceano Antartico mangiano circa il doppio di krill rispetto a quanto suggerito dalle stime precedenti e che le balenottee azzurre e le megattere che si nutrono di krill al largo della costa della California mangiano da due a tre volte di più di quanto si pensasse in precedenza». Tuttavia, le balene potrebbero mangiare la quantità di pesci dei quali si nutrono stimata in precedenza o anche meno, il che sembra riflettere la densità energetica del cibo: «Le balene hanno bisogno di mangiare più krill per ottenere la stessa energia che otterrebbero da una quantità minore di pesce», dicono i ricercatori.

L’autore senior dello studio, Jeremy Goldbogen, co-direttore della Hopkins Marine Station e professore associato di biologia alla School of Humanities and Sciences della Stanford, spiega a sua volta che «Man mano che le grandi balene diventano più grosse, anche il macchinario anatomico che consente loro di mangiare diventa relativamente più grande. Hanno evoluto questi sistemi che permettono loro di essere macchine mangiatrici. Quella dimensione sproporzionatamente più grande del ingurgitare consente loro di approfittare del cibo abbondante, come il krill».

I ricercatori hanno fatto le loro stime del consumo di cibo da parte delle balene in base ai dati sulla densità delle prede, la dimensione del gulp e la frequenza delle immersioni registrate dai tag. Passare da ore e ore di dati a stime generali e applicarle alle balene di tutto il mondo ha richiesto calcoli accurati.

Un altro autore dello studio, Max Czapanskiy, uno studente laureato nel laboratorio Goldbogen, ricorda che «Abbiamo ideato un processo molto complesso e abbiamo cercato di fare del nostro meglio per mantenere quanta più incertezza possibile lungo il percorso. Nessun altro studio ha dati come questo. E’ un enorme passo avanti, ma allo stesso tempo è un sistema difficile da studiare e c’è ancora molta incertezza».

Con queste nuove stime di consumo, i ricercatori hanno calcolato che attuale per nutrire la popolazione di balene esistente prima della caccia alle balene, l’abbondanza di krill all’inizio del XX secolo nell’Oceano Antartico doveva essere circa 5 volte quella odierna e «Questo implica un ruolo complesso per le balene nei loro ecosistemi in cui il declino o il recupero delle loro popolazioni è fortemente legato alla produttività e al funzionamento complessivi dell’ecosistema». La Kahane-Rapport commenta: «Speriamo che un lavoro come questo possa davvero indurre le persone a prendere in considerazione le ripercussioni delle attività umane sull’intero ecosistema perché stiamo ancora influenzando continuamente il loro ambiente».

L’Oceano Antartico è tra gli ecosistemi più produttivi della Terra, in gran parte grazie all’abbondanza di alghe microscopiche, il fitoplancton che è una fonte di cibo vitale per krill, piccoli pesci e crostacei, che a loro volta vengono consumati da animali più grandi, tra cui balene, uccelli e altri pesci. Ma la chiave del mistero della diminuzione contemporanea delle balene e del krill di cui si cibano è nel fatto che le balene aiutano anche a far crescere il fitoplancton: «Mangiando il krill e poi defecando, le balene rilasciano nell’acqua il ferro stoccato all’interno del krill, rendendo quel ferro disponibile per il fitoplancton, che ne ha bisogno per sopravvivere».

Czapanskiy riassume efficacemente quella che potremmo definire la concimazione dell’oceano: «Senza fitoplancton, non avremmo mai tutti gli animali e tutto ciò a cui teniamo così tanto. Quando le balene erano molto numerose, avevano questo ruolo incredibile nel rafforzare l’ecosistema». Savoca aggiunge: «Pensate a queste grandi balene come a impianti mobili di lavorazione del krill. Ogni balenottera comune o balenottera azzurra ha le dimensioni di un aereo di linea commerciale. Quindi, nella prima metà del XX secolo, prima della caccia alle balene, c’era un altro milione di questi impianti di lavorazione del krill delle dimensioni di un  737 che si spostavano nell’Oceano Antartico mangiando, facendo la cacca e fertilizzandolo».

Prima dell’inizio dell’epoca della caccia alle balene in Antartide, balenottere comuni e minor, megattere e balenottere azzurre messe insieme avrebbero concimato l’ambiente marino con circa 1,500 tonnellate di ferro all’anno, gran parte del quale altrimenti sarebbe sprofondato nel fondo dell’oceano quando il krill muore. La fertilizzazione del ferro avrebbe portato a fioriture di plancton molto più grandi: circa 215 milioni di tonnellate di crescita aggiuntiva fitoplancton, pari all’11% dell’odierna produzione di fitoplancton nell’Oceano Meridionale, stimano gli scienziati. Questo a sua volta, avrebbe sostenuto un numero maggiore di krill, che si nutre di plancton.

Intervistato da Anthropocene, uno degli autori dello studio, Nicholas Pyenson  del Department of paleobiology del National Museum of Natural History dello Smithsonian Institute, riassume: «I nostri risultati dicono che se riportiamo le popolazioni di balene ai livelli pre-caccia delle balene osservati all’inizio del XX secolo, ripristineremo un’enorme quantità di funzioni perdute negli ecosistemi oceanici. Potrebbero volerci alcuni decenni per vedere i benefici, ma è la lettura più chiara mai vista sull’enorme ruolo svolto dalle grandi balene sul nostro pianeta».

I risultati potrebbero interessare anche ai leader mondiali riuniti in questi giorni alla COP26 Unfccc di Glasgow: le voracissime balene potrebbero persino aiutare a tagliare l’inquinamento da gas serra: «L’ulteriore crescita del plancton rispetto ai precedenti numeri di balene nell’Oceano Antartico – dice Pyenson – avrebbe assorbito tanto carbonio quanto gli ecosistemi forestali che coprono un intero continente».

Questo studio ricco di colpi di scena dimostra il potenziale impatto di porsi delle domande semplici: cercando di stabilire quanto mangiano le balene, ha messo in dubbio quello di cui pensavamo che le balene avessero bisogno per sopravvivere e come le attività delle balene e dell’uomo influenzino gli ecosistemi oceanici.

Goldbogen conclude: «Solo l’idea che se rimuovi le grandi balene, in realtà c’è meno produttività e potenzialmente meno krill e pesci è incredibile. Ci ricorda che questi ecosistemi sono complessi, molto intricati e che dobbiamo fare di più per comprenderli appieno».

Tratto dadel 05 Novembre 2021