ESIGENZE DELLA SOCIETÀ E DEL MONDO DEL LAVORO

Prof. Zicarelli
Prof. Luigi Zicarelli*

Negli ultimi anni le professioni si sono evolute e hanno cercato di rispondere alle esigenze della società e del mondo del lavoro. La stessa formazione ha subito trasformazioni tese a fornire una preparazione al passo con i tempi e in molti casi anticipando il futuro. In tutti i campi è stato tutt’altro che facile. I programmi di studio, infatti, sono ancorati a rigidi schemi obbligatori dettati dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica (MIUR) che a loro volta sono condizionati da lobby di potere.
La nuova legge Gelmini ha rivoluzionato il mondo universitario dettando regole che, se in molti casi hanno impedito a coloro che non avevano una sufficiente produzione scientifica di aspirare a una progressione di carriera, dall’altro non ha tenuto conto della capacità didattica dei candidati. La stessa produzione scientifica ai fini didattici è spesso discutibile. Un esempio per tutti: ha più titoli chi pubblica su riviste ad alto impatto che poco hanno a che fare con la professione rispetto a chi pubblica su riviste divulgative che cercano di risolvere problemi inerenti la professione.
Per esempio, tra un chirurgo che pubblica su riviste ad alto impatto ma non è mai entrato in sala operatoria (questo si verifica sia nella medicina umana sia in quella veterinaria; l’attività clinica incide per meno del 20% sulla valutazione) e un altro che ha acquisito una notevole esperienza in sala operatoria, ma ha una mediocre produzione scientifica, viene preferito il primo che dovrà insegnare ciò di cui non ha esperienza.
I corsi di studio sono ormai solo la premessa per la preparazione di un professionista che sarà completata nel post-laurea.
Anche la medicina veterinaria è stata coinvolta da questo processo che è risultato più complesso perché specie che in passato erano la base della formazione oggi sono state via via marginalizzate lasciando spazio ad altre che nel passato non venivano neanche menzionate. E’ nota la difficoltà di improvvisare nuove competenze; ciò è possibile solo con il reclutando di giovani notoriamente più aperti alle innovazioni. Le finanze non consentono questa operazione anche perché il turnover degli ultimi anni è notevolmente rallentato. Spesso ci si avvale di liberi professionisti di particolare esperienza ai quali si elargisce una retribuzione ridicola (non è consentito affidare un insegnamento a titolo gratuito ad un esterno).
Le Scuole di medicina veterinaria nacquero per dotare di personale specializzato i reggimenti di cavalleria, le truppe someggiate (in pratica tutte) e per arginare la peste bovina (ad occuparsene per prima nel 1711 fu un medico Giovanni Maria Lancisi), dichiarata estinta solo nel 2011 dopo una lotta durata 300 anni. Lo sviluppo della meccanizzazione e il progressivo miglioramento della viabilità (forse soprattutto questo) ha ridotto in Italia di oltre il 76% il numero di equini tra il primo censimento del dopoguerra (1947) e oggi. E’, ormai, utilizzata per scopi sportivi, ludici e terapeutici (pet therapy, latte come sostituto di quello materno, cosmetica, carne ricca di ferro ecc.).
Nello stesso intervallo di tempo, sono scomparsi circa 4 milioni di bovini prevalentemente da lavoro (riduzione di oltre il 40% del patrimonio bovino nazionale) senza che questi fossero sostituiti da bovini da carne derrata di cui siamo deficitarii (- 60%). Senza effettuare una disamina del fenomeno è opportuno sottolineare che il consumo/pro capite della carne rossa tra il 2000 e il 2012 è diminuito da kg 25,20 a 20,70 in parte per la crisi (scelta di carni meno costose), in parte a causa della demonizzazione della carne bovina (Veronesi e company) e in parte perché la carne rossa ormai è un prodotto che per gusto poco si differenzia da carni meno costose; ciò è da attribuire alle tecniche di allevamento utilizzate, che devono essere necessariamente spinte, sia ai genotipi caratterizzati da masse muscolari ipertrofiche, che sono più convenienti per chi commercializza ma sono meno sapide. La stessa CEE pone all’apice della griglia SEUROP carcasse ipertrofiche e senza grasso che appartengono a determinati genotipi e sono poco consigliabili sotto l’aspetto salutistico; in definitiva fanno sorgere il sospetto che trattasi di bovini “gonfiati” con sostanze che le attuali tecniche di laboratorio, così come accade per gli atleti, non riescono a mettere in evidenza, vanificando la onesta caparbietà di alcuni colleghi. Eppure un controllo più efficace ed affidabile sarebbe possibile!
Il servizio veterinario pubblico continua ad essere impegnato in molte regioni nel risanamento delle grandi malattie. L’opera che nel passato vedeva impegnato il medico veterinario nei mattatoi, formidabili osservatori epidemiologici, oggi è effettuato a valle con controlli sempre più cartacei e sempre meno professionali (ciò dipende da come facciamo le cose). Per alcune specie (avicoli, conigli e a breve i suini) sembra non sia più necessario la figura del medico veterinario nelle strutture di macellazione perché si afferma che i capi provengono da allevamenti in cui le patologie sono praticamente assenti. Eppure trattasi di specie allevate in strutture, che per quanto razionali, non sempre garantiscono i capi da patologie di gruppo che necessitano di trattamenti che possono dar luogo alla presenza di residui. Uno dei motivi dell’esclusione o della marginalizzazione del medico veterinario in queste catene di macellazione dipende dal fatto che raramente i colleghi hanno inviato reperti autoptici agli ISZ chiedendo un approfondimento della diagnosi che sarebbe risultata molto utile a migliorare le condizioni sanitarie degli allevamenti anticipando la diagnosi di eventi morbosi che sarebbero stati riscontrati successivamente nelle aziende. Lo studio di lesioni in sede autoptica e la ricerca degli agenti eziologici potrebbe risultare di grande utilità all’allevatore in caso contrario il solo sequestro e distruzione degli organi banalizza l’atto veterinario e giustifica la delega dei controlli a figure meno costose.
Un altro esempio: è difficile all’esame autoptico trovare ovini senza echinococcosi. Finché i colleghi si limiteranno al sequestro e alla distruzione degli organi senza avviare indagini epidemiologiche tese a salvaguardare l’economia dell’allevamento e ad eradicare un parassita che contagia anche l’uomo, è molto più economico utilizzare un laico che potrà essere addestrato a differenziare un organo sano da uno malato.
Non tutti i colleghi danno pari importanza alla salvaguardia della salute umana e a quella degli animali da reddito. Agli inizi degli anni ’90 l’afta fu diagnosticata in un mattatoio ma passarono giorni prima che fossero prese adeguate misure di profilassi per impedirne la diffusione. A mio avviso molte malattie diffusive, finora rare, saranno sempre più frequenti sia per i cambiamenti climatici sia per la globalizzazione o se vogliamo per l’aumento degli scambi commerciali (vedi lingua blu). Non mi risulta che i servizi veterinari siano coinvolti nel fenomeno degli immigrati né che pretendano accurate visite cliniche ed esami diagnostici per il personale extracomunitario che sempre più frequentemente è introdotto nei nostri allevamenti. Si interviene sempre dopo!
E’ totale l’assenza dal sistema produttivo. Il controllo del latte alla stalla, che doveva essere il lavoro quotidiano dell’area C, è ormai delegato all’autocertificazione. Se fosse stato fatto in maniera capillare il servizio veterinario avrebbe garantito la tracciabilità e sarebbe stato utile sia per il consumatore sia per l’allevatore, garantendo al primo la provenienza della materia prima e al secondo la valorizzazione del suo lavoro. Non ci sarebbe stato spazio per cagliate, latte in polvere o congelato. Medico veterinario, consumatore e allevatori seri avrebbero dovuto fare fronte comune e essere garanti della qualità, non solo della sanità/salubrità, dei nostri prodotti. I formaggi a pasta filata, ad esempio, soprattutto nella nostra regione e in tutto il SUD (dal Molise alla Sicilia), sono stati danneggiati da questi succedanei del latte. La mozzarella di vacca, un nostro prodotto, ormai si produce industrialmente soprattutto al NORD e sottende un PIL pari a quello del Parmigiano reggiano, circa 39ML di euro. E’ ricchezza che è andata altrove. Siamo certi che il fenomeno non è dipeso anche dal nostro operato?
Qualcosa si può recuperare, basta volerlo. Con la liberalizzazione delle quote latte assisteremo a due grossi blocchi:
a) mega allevamenti che nel giro di un decennio dapprima fagociteranno le medie aziende ma poi saranno fagocitati da aziende di Paesi con costi di produzione più contenuti;
b) aziende di medie dimensioni a filiera corta che dovrebbero far rivivere i nostri prodotti tradizionali che saranno dotate di mini caseifici che dovranno essere sotto il controllo del Servizio veterinario. Mi auguro che, così come avviene nei Paesi più progrediti d’Europa, che non siano imposte strutture di cui devono necessariamente dotarsi i caseifici industriali ma che non sono obbligatori per quelli “artigianali”. In Francia per questi caseifici sono sufficienti i servizi igienici dell’abitazione del proprietario. Ho visto pretendere la realizzazione di servizi igienici supplementari per il caseificio adiacente all’abitazione del proprietario. Non è scritto da nessuna parte. Non è così che si favorisce la crescita di un territorio e si salvaguarda il lavoro di regioni con alto tasso di disoccupazione.
Ulteriore attività che vedrà sempre più impegnati i medici veterinari con mente aperta sarà quello dell’inquinamento ambientale, della salvaguardia del territorio e della protezione/contenimento della selvaggina. E’ sugli animali (sentinelle ambientali per definizione) che vengono effettuate le prime diagnosi di presenza di sostanze dannose/inquinanti. Non dobbiamo limitarci più alla diagnosi ma dobbiamo puntare alla gestione del fenomeno perché nessun operatore a ha una preparazione più completa della nostra!
Mi rendo conto che non è facile far cambiare mentalità soprattutto a professionisti, raramente ormai di estrazione rurale, che hanno scelto un corso di studi solo perché amavano gli animali (quelli piccoli) e in molti casi hanno dovuto dirottare verso altre attività perché il mercato era saturo.
Nei miei 8 anni di presidenza + direzione la Facoltà/Dipartimento ha esternalizzato molte attività formative. L’ultimo semestre per complessive 750 ore gli studenti sono sotto il tutoraggio di validi professionisti, cui va tutta la mia gratitudine e la mia stima, che li hanno introdotti nel mondo della buiatria (circa un mese), dell’ippiatria (quasi una settimana), negli allevamenti di suini e di ovaiole (quasi una settimana), sono stati coinvolti per una settimana nelle attività di in un’azienda zootecnica (Improsta), sono stati nelle ASL (mattatoi, caseifici, mercato ittico, supermercati ecc.) al PIF, nell’OVUD (Ospedale veterinario universitario didattico), in laboratori di punta della Facoltà, del CREMOPAR e del Centro avicunicolo di Varcaturo, nell’Ospedale dei cani senza padrone dell’ASL NA1, con la quale e con l’IZS è stato costituito il Polo didattico Integrato (unico in Europa). Tale approccio è stato molto apprezzato come modello dall’EAEVE che ci ha promosso in Europa al primo esame (siamo l’unica Facoltà in Italia approvata in una vecchia struttura: quest’anno compiamo 200 anni di vita conventuale, 1815 – 2015).
Gli studenti complessivamente hanno appezzato questo percorso didattico ma ovviamente alcuni (pochi per la verità) che si sono iscritti per curare cani e gatti, magari i loro, hanno esternato il loro disappunto; alla fine hanno capito che senza quelle 750 ore non avrebbero mai conseguito il titolo. Alla maggior parte, invece, si sono aperti nuovi orizzonti e un modo più globalizzante di considerare la Medicina veterinaria. Spero che il futuro sia di una generazione più aperta, artefice di un mondo veterinario pullulante di cervelli disponibili ad affrontare ciò che muta velocemente e non si fossilizzi alla medicina veterinaria dei sogni. Questo atteggiamento fa diventare vecchi anche i giovani mentre è necessario essere aperti e mettere la propria professionalità al servizio di ciò che la società richiede. Sotto questo punto di vista ormai sono certamente vecchio ma ciò poco importa perché sto uscendo dalla scena. Molto più grave è vedere che gli apici delle Federazioni e delle Associazioni dei Medici veterinari non si sforzano di essere propositivi ma sono arroccati su vecchie posizioni. Basta vedere quanto spazio è riservato agli Ordini del Mezzogiorno per rendersi conto che trattasi di lobby e non di altro.
Certamente i neolaureati di oggi sotto il profilo tecnico sono in grado di operare molto meglio di quando io stesso ho conseguito la laurea 45 anni addietro. E’ ciò che vuole l’Europa, il veterinario del giorno dopo. E’ sufficiente?
Sono dell’avviso che l’Università debba dare i rudimenti della professione ma è compito di chi forma i professionisti del futuro piantare il seme della cultura e nel nostro caso della “cultura veterinaria”. Questo scopo è stato raggiunto? E’ presto per dirlo perché la cultura è ciò che rimane quando si è dimenticato ciò che si è appreso.

* Preside Dipartimento Medicina Veterinaria e Produzioni Animali dell’Università degli Studi Federico II di Napoli